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Agosto 3, 2020

Secondo uno studio condotto da alcuni ricercatori della Yale University, la presenza del virus SARS-CoV-2 nelle acque reflue di un’area abitata potrebbe evidenziare con largo anticipo – almeno una settimana – un focolaio epidemico in corso.

Acque reflue e COVID-19: lo studio

La ricerca è stata condotta a New Haven, un’area metropolitana nordorientale degli Stati Uniti, dove dal 19 marzo 2020 al 1° maggio 2020 gli scienziati hanno monitorato i fanghi di depurazione di un impianto di trattamento delle acque di scarico.

Il team, quotidianamente, ha registrato la quantità di RNA di SARS-CoV-2 presente nei residui, confrontandolo poi con il numero di nuovi casi di positività al virus e con il numero dei ricoveri in zona.

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Cosa è emerso

Ne è emerso che l’andamento del coronavirus nelle acque fognarie rispecchiava esattamente, con ben sette giorni di anticipo, la curva epidemica del COVID-19 nella zona servita dagli stessi impianti. Basti pensare che il numero più alto di ricoveri per coronavirus si è registrato tre giorni dopo il picco del livello di RNA nelle acque di scarico.

Ecco perché, secondo gli esperti, il monitoraggio costante delle acque reflue ed un’analisi approfondita delle stesse potrebbero aiutare a ‘prevenire’ eventuali nuove ondate di coronavirus, soprattutto dopo la fine del lockdown globale.

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