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Settembre 1, 2020

Si sta avviando alla conclusione il progetto Horizon 2020 di Smart-plant finanziato dalla Commissione Europea che, dal giugno del 2016, ha implementato ben 9 nuove tecnologie innovative a bassa quantità di carbonio per la depurazione delle acque reflue e per il recupero dei materiali in esse contenute. Un contributo importante è stato dato anche dal dipartimento di Biotecnologie dell’Università di Verona, che ha portato avanti alcune ricerche rientranti nel progetto.

Horizon 2020: recupero della cellulosa dalle acque reflue

Un primo studio, chiamato “Sieving of municipal wastewater and recovery of bio-based volatile fatty acids at pilot scale”, è stato condotto proprio da un gruppo di docenti dell’ateneo veneto, in collaborazione con l’Università Politecnica delle Marche. L’indagine ha avuto come obiettivo primario il recupero della cellulosa presente nelle acque reflue, avvenuto tramite un “filtro rotativo dinamico accoppiato ad un’unità di fermentazione acidogenica per produrre acidi grassi volatili, potenzialmente recuperabili e utilizzabili in diversi processi industriali come precursori chimici di origine biologica”, ha spiegato il docente di Impianti Chimici all’Università di Verona Nicola Frison. “In questo modo sarebbe potenzialmente possibile valorizzare il fango di depurazione trattato fino a 100 € per tonnellata, rendendo più circolare il trattamento delle acque reflue municipali”, ha aggiunto.

Rimuovere l’azoto

Un secondo test, denominato “Long-term validation of polyhydroxyalkanoates production potential from the sidestream of municipal wastewater treatment plant at pilot scale”, ha invece dimostrato come è possibile rimuovere l’azoto presente nelle “acque madri” e, al contempo, attivare una biomassa in grado di accumulare le bioplastiche all’interno delle cellule. Questo processo è estremamente importante in quanto, spiega Frison, “permetterebbe di ottenere un ricavo fino a 11 volte superiore a quello ottenuto dalla sola produzione di biogas in un impianto convenzionale di depurazione, incrementando così la sostenibilità del processo e la possibilità di upscaling dello stesso a livello industriale”.

Monitoraggio e previsione delle emissioni di ossido di diazoto nelle acque reflue

L’Università Veneta ha infine lavorato, in collaborazione con i ricercatori dell’Università Politecnica delle Marche e con quelli dell’Università di Brunel in Inghilterra, ad un sistema volto al monitoraggio e alla previsione delle emissioni di ossido di diazoto dalle acque reflue. “Lo studio ha messo in evidenza che le emissioni totali di N2O prodotte dal processo rappresentavano fino al 7.6% dell’azoto trattato, contribuendo fino al 97% sull’impronta di carbonio complessiva di tutto il sistema. L’utilizzo combinato dei modelli SVM (macchina di supporto vettoriale) e SVR (regressione di supporto vettoriale) ha permesso di predire in maniera accurata l’accumulo e successiva emissione di N2O all’interno del sistema, permettendo così di evitare l’utilizzo di costosi sensori ad hoc che spesso necessitano di coste e frequenti manutenzioni”, ha sottolineato Frison.

A fronte dei risultati ottenuti, il team di ricercatori è fermamente convinto che gli impianti di depurazione già esistenti potranno diventare, in un futuro nemmeno troppo lontano, delle vere e proprie “bioraffinerie volte al recupero di prodotti ad alto valore aggiunto”.

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